Suor Benedetta dell'Annunciazione


Scegliere la prova
è stupidità,
accettarla
è santità.



“No, no! Non può essere vero!
È soltanto un incubo, un brutto e terribile sogno!
Non è possibile che sia vero!”
Ma per Suor Benedetta quella notte non era sol tanto una
sua impressione; era anche una realtà che le si stava via via
rivelando, dentro di sé, attraverso quel tormento fisico e spirituale
che prima di allora non aveva mai sperimentato. Non
era un male, ma molto di più: un senso continuo di nausea di
sé, un’impossibilità a trattenere fermo il proprio corpo, un
sempre più diffusa insoddisfazione totale, che coinvolgeva
tutta quanta la sua persona. Suor Benedetta non poteva fare
a meno di rigirarsi nella sua brandina ormai inzuppata dal
sudore, alla ricerca di un attimo di quiete; ma ogni movi -
mento non provocava altro che un più intenso senso di sconforto.
Ed ora, anche i pensieri che affioravano venivano rivestiti
di questa atmosfera di morte: che significato l’essere
suora, che senso la vita stessa?
Che importanza hanno le cose e le persone adesso che si
sente la vita appesa ad un filo... tutto inconsistente?
Cosa si ha in mano, materialmente, adesso?
Quali risultati? Quali frutti di tutto l’agire? Zero! Tutto
svanisce adesso! Il senso di morte si avvicinava sempre più,
e suor Benedetta non se la sentiva proprio di bene dirla; tentava
di trovare una posizione nella brandina che le permettesse
di chiudere finalmente gli occhi, o per dormire, o anche per
morire. Ma dopo solo un attimo il dolore fisico e lo sconfor -
to morale la risvegliavano e non le permettevano alcun tipo
di riposo. Non le pareva proprio possibile di sperimentare
quella situazione; e allora pensava al fatto che poteva essere
un sogno, che sarebbe prima o poi svanito, lasciandola in
pace. E così, pensava al da fare all’indomani... Ma ogni pensiero
veniva drasticamente rovinato dal suo star male.
Si chiedeva allora da dove fosse provenuto all’improv -
viso un tale male; cercava le cause nel cibo della sera, nella
tensione della giornata trascorsa, nell’aver lasciato qualcosa
fuori posto, nell’aver tra scurata qualche sorella, fatto che ora
le procurava tutta questa situazione... Ma nessuna di queste
era la risposta, non v’era dubbio. E allora? Si sentiva rodere
dentro, fisicamente, quasi che il suo corpo si stesse consumando
da sé, senza che lei ci potesse fare nulla; ma il peggio
era che anche la forza di sopportazione stava venendo
ormai meno, lasciando spazio sempre più soltanto a tristezza
e sconforto. Si asciugava il sudore della fronte, mentre
sentiva gli occhi appesantiti e gonfi di apprensione; ogni
tanto si metteva seduta sulla branda, accomodando alla
meglio le lenzuola, rigirando il cuscino bagnato, mentre
aveva già gettato per terra la coperta che, a causa anche del
caldo, pareva la schiacciasse sotto un peso insostenibile.
Osservò ancora una volta, quasi sbadatamente, l’orario; era
ancora notte fonda, il tempo sembra va deciso all’immobilità.
Avrebbe voluto chiedere un po’ di aiuto, ma era troppo
tardi per chiamare qualche sua consorella; e poi, sarebbe
stata una vergogna, non riuscire a sopportare un momento di
difficoltà da sola. Già, ma quello le pareva la morte in persona,
lì davanti, a sfidare una suora che aveva già desisti to
da ogni combattimento e ora attendeva soltanto il momento
della resa. “Se dovessi morire proprio ora, in questo preciso
istante, che cosa lascerei agli altri? Per che cosa mi ricorderebbero?”.
Pensava al fatto che i parenti avrebbero ereditato ben
poco da lei; e che forse proprio per questo di lei si sarebbero
solo lamentati e presto anche scordati; e le sue sorelle: le
sue suore? Come l’avrebbero presa questa morte? Un poco
di lacrime, beh, sì; almeno alcune, avrebbero pianto. Quanto
all’eredità spirituale, ecco... Pur cercando qua e là, nulla
emerge di consistente da poter lasciare; anzi, proprio ora,
ogni attività, tanto spesso elogiata, perde di significato, di
portata, sembra proprio essere stata poco utile, se non inutile.
Il senso di dolore ormai insopportabile ora costringe suor
Benedetta a girare avanti e indietro, passeggiando dolorosamente
e cercando di fare il meno possibile rumore, per non
svegliare chi dorme nelle cellette accanto.
“Ma cosa mi resta allora...? Cosa sono io, in fin dei conti?
Una nullità? Ho proprio sbagliato tutto nella vita?”.
Ed ora in lei lo sconforto pare avere il sopravvento sul
male fisico, e la suora barcolla nei suoi ideali, nelle idee ed
esperienze che finora l’avevano sostenuta; è la notte della
sfida, della prova, del fuoco; ma questo è troppo, forse. Non
si è mai sentita così sola, senza più possibilità di aggrapparsi
a tutto ciò che finora era parso sta bile e sicuro.
Ritornano le domande dell’amarezza, in modo sempre
più provocatorio e demolitore; lei vorrebbe dimenticarsi,
lasciare il corpo e lo spirito, essere il nulla.
“E il tuo Dio, dov’è finito; Lui, il senso della tua vita?”.
Già, quel Lui per il quale hai gettato via tutto, dov’è?
Sposo, dove sei?
Come si può essere sposati in questo modo assurdo? Tu,
proprio tu del quale ero innamorata persa, per il quale ho
combattuto, prima di fronte ai genitori insensati che non
comprendevano la mia scelta; poi di fronte a coloro che non
conoscendoti ti negavano o insultavano... Ora, Dio mio,
dove sei? Adesso che dovresti essere qui accanto a darmi
aiuto, dove sei andato? Sì, c’è più bisogno altrove, non devo
guardare solo a me stessa, me lo son detto per tutta una vita...
Ma ora è troppo per me, se le cose stanno così, non ce la faccio
più! Eh, la fede! Cose troppo in alto, troppo fuori dalla
mia portata, troppo lontane da questi momenti, nei quali o
c’è o non c’è quello che ti serve. Dio mio!
Anche tuo Figlio sulla croce ti ha imprecato! Permetti che
lo faccia anch’io! Sì, sì, la mia scelta non dovrebbe farmi
dire ciò... Ma ciò che conta adesso salta fuori, non posso
nascondermelo: sono confusa e persa in questo dolore! Dio
mio, fatti sentire!
“Piantala, imprecatrice!”.
Vorrei ora recuperare i momenti belli, di gioia, della mia
professione, l’entusiasmo, la forza che mi ha sempre animato,
ma... Ora sono sola, senza incentivi e aiuti, senza altri che
mi accompagnino in questa esperienza: solo io. Comprendo
di valere sempre meno, ogni momento che trascorro in questa
notte, dove tutto appare nero e la speranza si affievolisce.
E adesso vedo che la mia speranza non eri proprio soltanto
Tu, Signore, ma altre cose e altre persone, e altri idea li, che
ora sono tutti caduti di fronte al mio star male, maledettamente
male! Se anche solo avessi un poco di sollievo! Ma
sarebbe chiederti un segno, ciò che non devo mai fare, ciò
che mi porterebbe non più a Te ma sol tanto a me stessa... Ma
tutto questo dolore è troppo forte, non so fin dove arriverò
nel mio resistere. Pregare?
Non ce la faccio proprio, non me la sento; e pur vedendomi
ogni attimo di fronte la possibilità della fine, non riesco
proprio a pregare, ad essere in clima di serenità per farlo.
Occorrerebbe almeno un poco di serenità e di calma, poi
potrei forse ini ziare, tentare. Non mi sento preparata a questo,
Signore. Dio mio! Passi questo male!
Ora suor Benedetta è sola con se stessa e con il proprio
atroce silenzio; i suoi occhi fissano sulla parete le ombre
disegnate dal pallido chiarore della luna; quella luna, che un
giorno l’aiutava a pregare, a cantare e a lodare, e che in questa
notte appare lì a testimoniarle soltanto la fine: la fine di
tutto: di sé, dei suoi ideali, dei suoi progetti, la fine di Dio.
Nella sua provata sopportazione la suora tace, non ha più la
forza di pensare e di parlare; solo il triste e lugubre silenzio
della notte del male le fa eco. Trascorre, così immobile, qualche
attimo, che le concede l’illusione che tutto stia finendo,
ma poi tutto torna come prima; e lei vorrebbe piangere, a
dirotto, sfogarsi, ma la rabbia di non riuscire ad essere se
stessa non le permette di farlo. Ed ecco riapparire la fila dei
pensieri e dei mali, che ora, rinforzati, si preparano ad un
nuovo attacco.
“No! Basta!”.
Quasi un grido, soffocato nel cuscino, poi il lasciar si
andare, sconfitta, incapace di trattenersi, di resistere; è stremata,
la notte l’ha quasi completamente penetrata.
“Ma come... Dio, no, non puoi essere così!”.
È Lui, il suo Dio, che le ha fatto sentire la sua presenza,
mentre tutto appariva ormai finito; e lei si attendeva la salvezza,
l’aiuto sperato e atteso. Ma Dio le ha detto un’altra
cosa, le ha chiesto ciò che lei mai si sarebbe aspettata da Lui,
le ha pro posto il tutto, la disponibilità totale. Ma com’è possibile,
in questa situazione di assurdità, che Tu, Dio, mi chieda
addirittura ciò? Io mi aspettavo la salvezza, che Tu mi
togliessi da questa situazione, e Tu invece... Mi chiedi di
accoglierla, di non far nulla per evitarla, di non preoc -
cuparmi di essa, ma di attendermi da Te qualcosa di più
grande, che Tu hai in progetto di dare a me e all’umanità, nel
tuo misterioso progetto d’amore, attraverso questa esperienza
che continua. E non riesco a dirti di no, adesso, perché so
con certezza che sei Tu a chiedermelo, e sei Tu che invogli
la mia fede; ma c’è ancora tanta paura. Se però, nei tuoi disegni,
questa prova ha significa to, anche se io non la comprendo,
ti dico: sia fatta la tua volontà.
Te lo dico tremante, ma non mi tiro indietro: se Tu vuoi
che sia così, sia!
E adesso comprendo che sei tu a dirigere tutto quanto, e
che per Te la cosa più importante non è la prova in se stessa,
ma la mia disponibilità ad assumerla; saresti capace anche di
non farmi vive re questa prova, ma di lasciarmi sempre nella
disponibilità ad assumerla. Già, chi potrebbe comprendere
questi tuoi disegni?
Suor Benedetta ha accettato la sfida di Dio: ora è Lui che
dirige tutto quanto, permettendo anche che il male faccia il
suo corso e coinvolga fino in fondo questa suora dell’ordine
dell’Annunciazione, per mettendo che essa sia travolta e provata
fino in fondo; ciò che suor Benedetta ora sa, è soltanto
una cosa, la più necessaria: tutto ciò avverrà rien tra nel piano
di Dio, fa parte del patto con Lui, rientra nella sfida che lei
ha accettato da Lui.
Ora è l’alba; la suora riprende il suo lavoro nel convento
e nel mondo; il male della notte sembra essersi un poco dileguato;
ma c’è sempre, da parte di suor Benedetta, un atteggiamento da curare:
 la sua disponibilità alla volontà di Dio;
anche là dove essa si manifesta nelle situazioni simili a quelle
della notte appena trascorsa.
“No, la paura del male non è scomparsa da me; ma in me
esiste, prima, la certezza di un Dio pre sente, che mi aiuta a
vivere anche questo male. Avrei potuto lottare con tutte le
forze contro questo male, ciò sarebbe stato umano e ragionevole;
ma Dio, allora, mi propose una pazzia: di ragionare
come Lui, di ragionare oltre gli schemi umani, ed assumermi,
liberamente, la prova intensa del dolore, pensando prima
di tutto non a debellarla, ma ad accettarla. Sapessi, dopo tutti
questi anni di sofferenze, quanta grazia ho trovato! La mia
sofferenza ce l’ha in mano Lui, è nel suo destino, e quindi
continuo, fin quando Lui vorrà, secondo la sua volontà.
Curarmi? Certo che lo faccio, ma so anche che Lui sta permettendo
che ogni cura su di me poco valga, perché molto
valga, anzitutto, la sua grazia. Contenta? No di certo; direi
invece serena, molto serena; noto che nascondere tutto ciò
agli occhi degli altri costa, e anche a me stessa; ma questo
disegno misterioso sento anche che si va realizzando, per me
e per tutti, e quindi, finché ci riuscirò, con la sua grazia, continuerò,
finché Lui dirà. Cosa sto scoprendo? Come dicevo
prima, un’infi nità di grazia; e poi anche il fatto che sei
amata, e che non sei tu ad amare.
Scopro che è l’Amore che mi viene incontro con Tutto se
stesso, e ciò mi arricchisce più di ogni cosa; la mia prova è
la garanzia, la possibilità, la via per giungere meglio a tutto
ciò; è un dono il poter vive re in essa.
Cosa mi attendo ora da Dio? Che mi chieda tutto, se
ancora non l’ho dato”.

Chi non lavora non fa l'amore

Quella suorina, da dietro la grata, con quelle sue poche

parole, mi ha proprio scioccato!... Come può dirmi lei, dal

suo far niente della clau sura, che l’amore lei lo vive senza

fare l’amore? E poi, quella strana parola: “castità”! Già,

ma che lavoro è la castità, che attività riguarda nella vita?

Ma quella benedetta figliola avrà ancora provato il resto

della “castità”, cioè le gioie della vita, il pia cere, tutto ciò

che insomma rende qualcosa di con creto? “La castità per

me è il modo migliore d’a mare”, mi ha detto con semplicità,

così, su due piedi.

Boh! “Cosa le dà la castità, sorella?”, le ho chiesto con

un po’ d’ironia. E lei: “II senso di tutto ciò che vivo: vivo

amando”. Già: amando. E mi ritorna la questione: amare.

Per me, immerso nel mondo di tutti i giorni, quell’amore

non può esse re che concreto, e non ci può certo stare se

non lo vedo, se non lo tocco. Per lei, mi pare proprio che

sia un amore che non si vede, che non si tocca; eppure,

non mi sembra affatto una ragazza fuori dal mondo. È

anche carina e graziosa, quella suo rina, e non penso proprio

che abbia scelto la sua vocazione seguendo il motto:

“Quando il mondo non mi vuol più, mi rivolgo al buon

Gesù”. Penso proprio che avrebbe avuto da fare nel

mondo, e lavorare per qualcosa di più utile. Invece, se ne

sta lì, contenta di vivere un’attività che non si vede e che

non rende, secondo me.

Certo che mi ha pro prio scioccato e un po’ scombussolato,

direi... In crisi, io? No, no, non lo sono. Sono soltanto

curio so di sapere cosa sta dietro a quelle grate, se c’è

vita là, dietro quelle inferriate che non mi convincono,

perché non mi appare chiaro e subito quello che si sta

facendo e ciò che si sta vivendo.

Ma perché que sta separazione, questo nascondimento,

questo distacco dal mondo, perché questa attività, questo

non lavorare quando ce n’è tanto bisogno?

Mi pas serà... Ma quello che non posso proprio

dimentica re, intanto, è quel volto sorridente e sereno della

suorina, che - scommetto l’osso del collo - non sto sbagliando

a dire che quella sta vivendo per amore. Davvero,

è una che sa amare, quella.

La pazzia di Dio

“Dio,...
... Ma sei pazzo?”
“Sì...
Pazzo d’amore per te!”

L’esperienza dell’amarsi è tanto più bella quanto più è

folle; se l’amore si riducesse a uno stile di rapporti, ad una

sistemazione delle cose, ad un riconoscersi, a risultati ottenuti

e a dati di fatto, come potrebbe ancora essere amore

profondo ed intenso?

La dimensione della follia, di quell’essere circonda ti

dalle sorprese continue e dal rendere a nostra volta sorprendente

il nostro amare, ciò rende in effetti l’amore

capace di trasmettere il suo fascino, la sua attrattiva, la

sua bellezza. Quando una persona dice che ti ama, puoi

pure credergli, se ti ispira fiducia e consenso; ma quan do

una persona nel suo modo di atteggiarsi nei tuoi confronti

ti dimostra un interesse gratuito, quando è capace di

farti meravigliare oltre ogni aspettativa e ogni attesa,

quando il suo amore ti porta un continuo ed inatteso sorriso,

quando il tuo stupore di fronte a ciò è al massimo e

anche tu ti senti cambiare nel tuo stupirti, perché cominci

a trovare cose e realtà nuove e finora sconosciute, ecco

che allora ti rivolgi a chi ti ama così e sorri dendo gli dici:

“Ma... sei pazzo?”.

Già, chiunque abbandona il sistema delle cose fatte,

degli atteggiamenti d’abitudine, chiunque va al di fuori di

un certo modo di comportarsi, non può essere sospettato

che di pazzia, di follia. E allo ra ti viene da dirgli: ma cosa

fai, non vedi che stai sbagliando, non ti accorgi che stai

uscendo dagli schemi di tutti, dal conosciuto ed assodato?

È come dirgli: no, così non va proprio! Piantala!

Ma se chi è folle produce amore e te lo dona, se chi

consideri pazzo e cataloghi matto ti regala cose nuove e

mai sperimentate, che non ti rovinano ma ti aiutano a crescere

e ad amare, se poi ti aiuta ad assaporare il mistero e

ciò che tu senti di non avere e di poter ottenere lasciandoti

amare attraverso l’e sperienza folle di un folle, cosa gli

dici? Dentro di te vorresti che l’esperienza che ti viene

regalata continuasse; attorno a te senti che sareb be meglio

non ascoltare queste pazzie... Allora non puoi far altro che

rivolgerti a quella persona e dir gli sorridente e sorpreso:

ma... sei matto? E allora, dentro di te, ti accorgi che in

effetti gli stai dicendo: non capisco la tua pazzia, ma continua

così, per ché mi sento amato, perché la tua follia è

oltre quell’amore che io conoscevo, non contro di esso. Il

mondo di oggi, tra le sue molteplici realtà positi ve e belle,

conserva dentro di sé un atteggiamento ambiguo e fortemente

pericoloso: il ritenere ogni esperienza soggetta a

esplorazione e spiegazione, per poterla considerare valida:

vale solo ciò che si può conoscere con completezza, il

resto è illusione.

Per questo, ogni cosa deve essere sistemata, assicu rata,

completata, conosciuta e sperimentata; al di là di ciò, non

esiste più nulla di valido. Tutto è stato a poco a poco confinato

e recintato, secondo schemi e ragionamenti, in base

ad esperi menti... ed ora, tutto può procedere, secondo uno

o l’altro di tali schemi, seguendo una o l’altra delle vie

tracciate... L’importante è non uscire dalle vie, non “fuorviare”.

E così, anche l’amore, poco a poco, sta per essere

impoverito e limitato da questa mentalità; comin cia a

diventare l’amore conosciuto, alla portata, che rientra

nello schema di ogni atteggiamento umano. E così, l’amore

ha perso le sue caratteristi che: la gratuità, la fantasia, la

sorpresa. Chi ama, oggi, deve dare e ricevere, deve agire

cioè come in ogni altro rapporto degno di “validità”; deve

poter vedere ciò che va e ciò che viene, deve mantenere

l’equilibrio delle parti in causa.

Non ci si ricorda più che amore è attesa, senza spesso

niente di fatto tra le mani, senza risultati e frutti subito alla

portata; proprio l’attesa, oggi denigrata, perché considerata

strumento per falsare i rapporti, per evitare di dare o di

avere, un tempo era l’attrattiva dell’amore, lo purificava e

lo rendeva sempre più orientato non all’avere, ma all’essere

della persona. Già, era proprio questo il fatto essenziale,

allora: l’amore per quello che sei, non per quello che

dai, né per quello che ottieni. Questo discorso, oggi con -

siderato d’antiquariato, è invece proprio l’essenzia le di

questa esperienza che appare sempre meno affascinante e

sempre più consumabile.

Chi ama gratis è pazzo, è fuori di sé. Perché dovrebbe

farlo, quando tutto gli dice che egli è solo e che sta andando

contro lo stile della maggioranza, della mentalità di

tutti? Chi ama gratis si è fatto fregare dalle illusioni, è

fuori non solo di sé, ma anche dalla realtà, è un tagliato

fuori da tutto.

E se continuerà così... Prima non gli daremo ascol to;

poi, lo isoleremo, poi, se persiste nella pazzia, gli metteremo

un po’ di paura; se non la smette, lo rinchiuderemo in

manicomio, dove potrà sfogare la sua pazzia senza far

danno a nessuno di noi. Non sarà la pazzia di qualche forsennato

a metter ci paura!

E così, l’amore sta diventando sempre più una cosa

normale, ben nota a tutti e della quale il mondo d’oggi si

fa maestro.

Insegnare ad amare è potere della società; impara re ad

amare è dovere di chi vuoi farne parte. Proprio così...

Intanto, l’amore sta perdendo sem pre più la sua caratteristica

di gratuità. E la fantasia?... Roba dei bambini, questa!

Lasciamogliela, intanto, in modo che giocando con

essa non ci vengano a disturbare, ci lascino fare le nostre

cose e intanto loro restino anche occupati per un po’. Un

giorno poi cresceranno...

La fantasia troverà l’impatto con il muro della nostra

realtà e si sfracellerà contro di essa; allora, il bambino

dirà: basta! Ora devo essere un adulto, basta con queste

fantasie che non mi danno nien te e che non mi permettono

di dare niente. Il bambino, non più bambino, entrerà

nella realtà di oggi e si sistemerà, troverà il suo sistema, la

sua organizzazione della vita... Ce ne sono tante di possibilità!

Basta che non riprenda le sue fantasie: rovinereb -

bero lui e noi, non glielo permetteremo.

“Sì, non ho vergogna di dirlo, mi drogo! E allora? Mai

visto un drogato? Ma lo sai almeno perché? Cosa credi, sia

stata una scelta libera? No, ho dovuto; e ora, non riesco

più nemmeno a smettere; beh, tanto... Cosa interessa, a chi

interes sa se io mi drogo o no?

Almeno, in questi momenti, trovo quello che nes suno

mi ha mai permesso di raggiungere: immen sità, sconfinatezza,

infinità... Che mi dici? Che ci sono altri modi per

raggiunger li, e in modo migliore?

Vallo a raccontare a un altro, io adesso sto così! Ma non

vedi che schifo di vita? Non vedi che monotonia, che è

sempre la stessa precisa realtà, che si ripete e si ripete,

monotona, pesante, opprimente?

Almeno adesso mi illudo, anche se solo per un poco, di

poter amare, di poter essere amato; senza la mia droga,

sarei solo certo di essere nessuno. Vai, vai... Vai là fuori,

anche tu tra quella gente che non sa neppure cosa significhi

sognare. Io? Sì, sogno in modo sbagliato, ma almeno

sogno! Correggermi? Ah, ah! Rido!

Troppo tardi e inutile; prima provocate il mio erro re,

poi lo volete correggere! E per cosa poi? E quand’anche

mi facessi correggere, tu, dimmi, cosa mi offri, che mi

proponi? Ah, ah... Ma lascia che mi buchi, e tu pensa ai

fattacci tuoi, che io intanto sto meglio che prima!”.

Pensavano di aver eliminato la fantasia, quelli del

mondo adulto, ma non si accorgevano ancora che un tale

bene non può essere eliminato dall’uomo, che sempre e ad

ogni costo, anche per vie sbaglia te, l’andrà a cercare, per

cercare dalla fantasia quello che solo lei può dare: l’arte

del vivere. Ma l’arte non produce e non rende secondo il

mondo adulto d’oggi, per cui anche la fantasia non è capita,

anzi, viene continuamente cacciata fuori, come intrusa

nell’umanità... E così, l’amore sta perdendo la fantasia, e

sta perdendo, ciò che è ancor più grave, se stesso.

Sorprenderci?...

Ma non è possibile, dove tutto sta per essere pro -

grammato, inserire la sorpresa! Rovinerebbe il programma...

Bisognerebbe cam biare; dopo tanto lavoro di sistemazione,

ti rendi conto?... Cambiare?... Impossibile!

Amare è essere legati, stretti, vicini, corpo a corpo...

Non ci si ricorda più del gioco a nascondi no, dove il senso

della ricerca, la sorpresa del gioco, rendeva tutto quanto

più affascinante, più irresisti bile e più profondo.

La lontananza, allora, faceva ritrovare i motivi dello

stare vicini, faceva riscoprire gli aspetti dimenticati, trascurati,

da recuperare; oggi, amarsi vicino ci rende lontani

nell’amore; è un amore che si restringe, che si chiude e

si impoverisce nella monotonia dei corpi, dimenticando il

volare dello spirito, la sorpresa del mistero, che ti avrebbe

fatto dire: più ci avviciniamo, più non ti conosco, e per

questo ti amo! La sorpresa!

Ridotta ai concorsi e alle uova di Pasqua, i cui risul tati

già spesso conosciamo. Le sorprese della vita!...

Non parliamone, si direbbe oggi, perché fanno solo

provocare la paura, il sospetto di fronte al non noto, al non

previsto, al non programmato. Sorprendersi è rincorrersi

per gioco... Già, dire que sto proprio oggi, dove uno se ti

rincorre lo fa solo per fregarti o per chiederti, per imporsi

a te; dire questo oggi, dove l’ideale è la sicurezza, la stabi -

lità, la base sulla quale poggiare. Immersi nelle cose tanto

complicate, come è possi bile meravigliarsi, scoprendo le

cose semplici? Ci siamo abituati, a tutto: a me stesso, agli

altri, al mondo, a Dio stesso. Cosa c’è da scoprire ancora?

Anche le più recenti scoperte scientifiche ormai non

fanno più colpo, non richiamano più nessuno alla sorpresa,

sono solo l’oggetto delle verifiche e delle ipotesi, e di

altri esami più approfonditi. Ritornare a scoprire le cose

semplici? Già, sarebbe bello... Ma ora anche esse sono

tutte inquinate, non sono più semplici, sono piene zeppe di

elementi incasinati e da esaminare. Già, forse stanno

diventando più importanti delle realtà stesse le cose da

esaminare che le circonda no: non vediamo più il cielo, ma

tutti gli elementi che vagano nell’atmosfera; non vediamo

più il mondo, ma tutto ciò che lo circonda e lo minaccia;

non vediamo più l’uomo, ma solo tutti i suoi pro blemi;

non vediamo più Dio, ma solo l’uomo. E tutto questo

andazzo ci ha complicato tutto quanto, e ci ha tolto la possibilità

di sorprenderci, di fermarci, di guardare per contemplare.

Guardiamo per avere, per ricevere, per esaminare,

per accertare, per evitare, per calcolare... Mai guar -

diamo per contemplare, e così non raggiungiamo più le

realtà come sono: sorprendenti. Già, ci siamo abituati. “E

Dio, quel pazzo, che fa? Gioca, già, ecco che sta a fare... a

giocare! Vuol mettere di nuovo in ordine tutto, dice Lui,

vuol fare la sua ricreazione! Matto! No, non glielo dico

che è matto, per rispetto; sai, è sempre Dio, quello che ha

fatto tutto... Cosa vuoi dirgli?

Lasciamolo fare... Noi faremo le nostre cose; lasciamolo

giocare, tanto di danni non ce ne farà più.

Noi, su, pensiamo al nostro da fare, che abbiamo cose

più importanti!

...Che?!... Vuole che anche noi adesso ci mettiamo a

giocare con Lui? Ma è proprio matto!

Chiudete la porta, che così non ci disturberà più! ...Ehi,

dove vai tu? Ehi, torna qui con noi... Dove vai? Un altro

matto... Avete chiuso? Bene, vediamo un po’ i nostri pro -

getti dell’altro giorno; a che punto eravamo rimasti?”.

“Eccomi qua, Signore... Non me la sento di condi videre

con loro quei progetti; hanno reso il tuo Vangelo una

notizia ‘detta bene’, altro che bella notizia; Signore, sono

qui a tua disposizione... Vorrei fare quello che tu mi chiedi...

Chiedimi qua lunque cosa, la farò...”. “Torna là e proponi

loro di uscire a giocare”.

Ed ecco allora la pazzia di Dio, la sua insistenza d’amore

smisurato, incalcolabile e paziente, questo amore denso

di gratuità, di fantasia e di sorprese; questo agire incomprensibile

umanamente, e per questo ritenuto una follia.

Un Dio pazzo, perdutamente innamorato dell’uo mo,

che va oltre ogni schema, che sconfina oltre ogni sistema

e non può essere racchiuso nello spa zio logico.

Un Dio che gioca, che si diverte a farsi cercare per farti

trovare te stesso e quindi vivere nella gioia.

Un Dio che non si lascia definire, ridurre e spiega re

come il Dio quieto e tranquillo che mai scomo derebbe

nessuno; piuttosto, invece, birichino, che sconvolge ogni

idolo fatto dall’uomo e chiamato col Suo nome; un Dio

che non si lascia identificare in nulla, al di fuori di Lui,

l’Indefinibile. Se il tuo Dio è normale, è il Dio noto e

tradiziona le, non è certo Lui; e Lui stesso ti aiuterà a

incon trarlo, partendo dalla sua grazia. Quando ti accorgi

di quello che Lui sta facendo per te, ti viene proprio da

dire: ma... Dio, sei pazzo? Vedi che sta compiendo cose

impossibili, assurde, illogiche, ma senti in te la ricchezza

della sua gra zia, per cui gli sorridi, quasi ad invogliarlo nel

suo agire per te.

E Lui ti risponderebbe: sì... Sono pazzo d’amore per te.

Dio contro Dio: il Dio vero, che sta per abbattere ogni

forma di Dio che l’uomo, con l’andare del tempo, ha cercato

di costruire e ha definito. Dio, che dice di nuovo, con

maggior forza e chia rezza di una volta: non avrai altro Dio

all'infuori di me.

Nessun dio può sussistere, all'infuori di quello che

veramente è Dio; quello che l’uomo spesso chiama Dio ha

poco a che fare con il vero Dio; per questo, Dio contro

Dio, la fede si va purificando. Certo, pare più comodo

avere il dio nostro, che ormai il tempo ha reso noto, sicuro,

accomodato alla nostra mentalità di vita, accomodante

in ogni situazione, e proprio per questo poco affascinante,

poco cercato, molto serio e spesso sopportato. Quando la

nostra immagine di dio, di questo nostro dio fatto a nostra

immagine e somiglianza, cade, ecco emergere, senza possibilità

di riduzioni e di definizioni, la presenza di Dio

come mistero, come continua scoperta e fascino sempre

più intenso.

Non è più un Dio del Vangelo, ma un Dio-Vangelo: un

Dio buona notizia, interessante più che mai, da accogliere

come gusto e sapore della vita. Un Dio pazzo, quindi,

umanamente, che ti chiede pazzie per realizzare in pieno

la tua vita; un Dio che chiede non poco, non molto, ma

tutto, la pie nezza; con Lui si gioca con la vita in palio.

Egli, che non offre nulla di veramente sicuro e chia ro da

vedere, chiede la totale fiducia, chiede il rischio, non

lascia nulla nella tranquillità e nel dolce vivere.

Con Lui, con la sua presenza, non v’è più un atti mo di

riposo; eppure proprio così la serenità cresce e dà senso

alla vita. Se non ti fidi, se preferisci rimanere attaccato al

dio sicuro e dato da sempre, all’immutevole immagine che

ti è stata consegnata da fuori e che da tempo rimane tale e

quale, se non te la senti di rischiare con questo nuovo Lui,

fai pure... Ma d’ora in poi non puoi ignorarne la presenza

accanto a te, non puoi dire che Lui non c’è, non puoi non

vedere sempre di fronte a te la possibilità di scegliere, di

camminare, di rischiare.

Tieniti stretto pure quel tuo dio, ma ricorda che ora Dio

è contro dio; se il tuo Dio è Dio, resterà e cre scerà come

presenza sempre più profonda in te; ma se non è Lui, il tuo

dio a poco a poco si sgretolerà, come idolo, perché ora Dio

è contro dio. “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.

La religione è l'oppio dei popoli

Occorre proprio questa “droga”, non c’è niente da fare.

E mettetecela tutta la polizia e le forze dell’ordine

materiale e morale.

Ma un po’ d’oppio, ci insegnano le nuove genera zioni,

per dare tono alla vita è necessario. La religione, nel

mondo d’oggi, è questo “oppio” che da il tono e la spinta,

specie nei momenti nei quali si vede che tutto va male. È

la “droga” che, iniettata nella vena del vivere quotidiano,

da un senso di serenità e libertà di fronte a quello che succede,

di bello e di brutto.

Senza questa iniezione di serenità, il cristiano è impossibilitato

a partecipare come tale alla vita del mondo, e

anche se materialmente e fisicamente si può immergere

negli impegni e nei gruppi, e nella società civile, tutto questo

resta senza quel valore che solo la sua “droga” religiosa

gli può for nire: la serenità.

Il mondo ha bisogno di questa “droga” che, se da un

lato è concreta e la si vede (la religione), dal l’altro produce

nel mondo una sensazione invisibi le ma che da il tono

e il senso di tutto: la fede.

Non a caso i profeti, che nell’Antico Testamento erano

chiamati in ebraico: “nabi” = invasati (drogati), rappresentano

anche oggi i modelli della partecipazione della vita

del cristiano nel mondo. Partecipare alla vita del mondo

con questa “droga” positiva non significa allora isolarsi e

rifugiarsi in essa, a sognare, ma avere con essa il fondamento

di tutto, della vita globale, che viene come condita

da questa droga, proprio come avviene in cucina, con

quelle droghe che sono le spezie.

Per avere il senso di tutto, c’è poco da fare, bisogna

proprio passare per questo segno dei tempi che ci indicano

i nostri giovani del mondo, quelli proprio mondani nel

senso vero e proprio: che vivono e godono della vita.

E allora anche noi, non possiamo stare e starli a guardare,

ma dobbiamo partecipare, essere anche noi protagonisti

nella vita, portando in noi e pro ponendo intorno a noi

il segno della positività della vita: la religione, appunto,

“oppio” dei popoli.

Il poco dell'uomo e il tutto di Dio

“Cinque pani e due pesci,
che sono per tutta questa gente?
Portatemeli qua”.

L’uomo ha tra le mani il suo poco; un poco che alcune

volte egli ritiene essere il tutto, altre volte considera un

niente... Rimane un poco, come i cin que pani e i due pesci.

Il poco possono essere realtà positive: la fede, l’e -

sperienza, la vita stessa; possono essere le realtà negative

quali: le carenze, i problemi, le cose da sistemare e da fare,

gli inizi. In mano dell’uomo c’è il poco, mai il tutto. E

l’uomo, che porta tra le mani della vita il suo poco, spesso

rimane attaccato ad esso, ad esso si vincola e si aggrappa,

ritenendolo importante e condizionante, sia esso ritenuto

il tutto o il niente per lui. A questo poco l’uomo si

attacca volentieri; anche noi siamo lì, con il sacchettino

del nostro poco, tra la folla di quel Dio che moltiplica...

per tutti, e ne avanzò anche! E che fa questo Dio?

Per moltiplicare, chiede il poco dell’uomo, chiede il

sacchettino dei pochi pani e pesci; chiede, in pratica, di

dargli anche quelli, di non tenerti nemmeno quello “stretto

necessario”.

È un Dio che certo dona abbondanza, ma che prima ti

toglie tutto quanto; se gli dai tutto, quel niente tutto diventerà;

se ti tieni stretto il tuo poco, a poco ti varrà.

È la mossa segreta del dividere del seguace di Cristo:

non condividere il poco che hai, come par rebbe logico e

comprensibile fare, non spezzare il pane con i tuoi simili,

non aiutarli in questo modo, come invece potremmo giustamente

pensare, no, no...

Il segreto dell’abbondanza sta nella rinuncia tota le, nel

metterti anche tu che avevi poco a non avere più del tutto,

per darlo a quel Dio che solo con la tua collaborazione

diverrà il Moltiplicatore, l’abbondanza, la pienezza.

Se spezzi il tuo poco, condividendolo con gli altri, certo

non farai mai male; ma perché limitarsi a ricevere tutti

delle briciole, quando è possibile avere pane in abbondanza?

Ecco il segreto dell’abbondanza, dell’intensità della

moltiplicazione: rinunciare al tuo poco, per metter lo nelle

mani di Dio, che lo trasformerà in abbon danza per te e per

tutti. Porre quel sacchettino, al quale eri legato profon -

damente, che era il tuo cibo, necessario, indispen sabile

anzi, metterlo ai piedi di Dio, slegandoti da ogni legame

con esso, da ogni possibilità di gestir lo per te e secondo le

tue intenzioni. E finché questo sacchettino dei pani e dei

pesci con tiene delle realtà negative: preoccupazioni, problemi,

carenze, difetti, ossessioni... Finché si tratta di

lasciare queste, il discorso potrebbe anche essere compreso,

in fin dei conti; ma quando esso diven ta esigente,

quando ti chiede di lasciare quel poco che è positivo: i tuoi

progetti, le tue attese, le realtà che hai, ciò che sono le tue

convinzioni, la tua stes sa fede... Sì, pure quella, perché sia

moltiplicata... Beh, qui occorre un atto di fiducia di non

poco conto; c’è da mettere in gioco la stessa vita.

Lo faresti ancora, a questo punto, quando la stessa

ragione dice: guarda al concreto, tieniti stretto ciò che hai,

non rischiare di lasciare questi beni? Eppure Dio chiede

quei pani e quei pesci... Proprio i tuoi, in quel momento; ti

chiederai: perché pro prio i miei, perché non quelli degli

altri? Perché proprio queste poche cose gli occorrono?

Non riesce a fare da sé?

Non ce la fa a risolvere le cose senza chiedermi questo?

La tentazione di nascondere quel poco, di far finta di

niente, è forte: mangeremo questo poco dividen docelo tra

noi, amici! E gli altri? Beh, per tutta questa gente non

sarebbe certo ugualmente bastato...

Dio tende le sue mani, perché gli si offra quel poco.

Dio, questo poco ci serve! Come faremo senza di esso a

tirare avanti? Dare a Dio anche quel poco? Cosa ci resterà

in mano, poi? Tu avrai tutto solo se non ti legherai a

nulla, solo se sarai disponibile a dare anche quella piccola

parte che ti restava, necessaria, utile e sicura, offrendola a

Dio. Che ti gioverebbe aver condiviso anche per tutta la

vita quel poco, per darne un po’ a tutti, impe gnandoti e

cercando in tutti i modo di migliorare le cose, spezzando

quella poca realtà con gli altri, dandone un po’ a tutti,

mentre prima o poi essa si esaurirà e saremo daccapo, con

gli stessi problemi? Che ti giova aver spezzato quei pochi

pani e pesci con gli amici, ora che adesso tutto il problema

della fame riemerge?

Ma - dirai tu - non solo ho spezzato il pane con loro, il

mio pane, ma ho anche fatto di più: ho insegnato loro a

produrre pane! Non è abbastanza?

No, è ancora troppo poco, il poco del sacchettino... del

tuo sacchettino: è una bella opera, non però l’ottimo; è

un’opera umana, di te, e quindi limita ta; non è ancora

l’opera di Dio, l’abbondanza. Perché lo sia devi lasciare il

tuo poco nelle sue mani; forse non hai sentito bene queste

ultime parole: nelle sue mani!

Solo allora sarà possibile la moltiplicazione, quella di

Dio; altrimenti, certo non sarà un male, ma sarà la scelta

di ridursi a sommare, da poveri uomini, che non hanno

saputo profittare della ricchezza di Dio.

Perché continuare a fare del bene a briciole, quan do il

Signore offre la possibilità del pane in abbon danza, gratis,

per amore? Perché immergerci in tanti sforzi umani, pur

meri tevoli, ma che ti esauriscono e ti fanno perdere serenità,

mentre potresti rivestire i tuoi atti dell’a more, cioè

dare il sacchettino nelle mani di Dio, che ti ridona le ceste

piene? Perché fare ancora da sé il bene, mentre il bene è

l’Amore? Perché costruirlo, pur con le più buone intenzioni,

mentre c’è già e si tratta solo di imparare a tra -

smetterlo? Perché fare cose piccole, mentre Dio ci chiede

di fare cose grandi ed eterne?

E succede che allora, anche se la religione è una bella

cosa, la si è ridotta ad un religioso umanesi mo, che poco

ha a che fare con l’Amore, con Dio. Facciamo bene, ma

non facciamo il Bene. Siamo buoni, ma senza vivere nella

Bontà. Dio c’entra sempre meno, nella nostra esperienza,

con i nostri calcoli e i nostri resoconti e progetti di bontà

umana. Ma come, non è bene darsi da fare per gli altri? Sì.

Ma allora? Occorre partire dall’offerta del sacchettino.

Senza lo svuotarsi dei nostri anche più degni pro getti, ma

pur sempre nostri soltanto, non ci sarà azione d’Amore,

ma solo un primo lontano gradi no che porta ad Esso: semplicemente

aiuto, condi videre umano, simpatia, pietà

umana... Che non coinvolge Dio, lo lascia in pace, là, nella

sfera del l’astrattezza e dell’inconsistenza. Oggi tante attività

religiose stanno perdendo della loro anima, della fede:

di Dio. Sì, a parole Dio è dappertutto; ma poi, quando arrivi

a vivere l’esperienza che ti viene proposta, Egli non c’è;

è diven tato l’assente, mentre emerge il problema umano, o

le cose da fare, o un certo modo di pensare e di pregare,

ma non Dio. Una preghiera per la preghiera; una religione

a forza minima, dove l’annuncio esplosivo di gioia di

Gesù Cristo è divenuto lontano e sconosciuto. Che sia proprio

Lui, Gesù, l’illustre sconosciuto del cristianesimo?

Abbiamo preso la scorciatoia, pensando di arriva re

prima e meglio; un tempo, dall’uomo si partiva e si andava

a Dio, certi che si sarebbe giunti meglio all’uomo; ora,

dall’uomo all’uomo, direttamente, con risultati certo più

concreti ed efficaci. Si è preferito dividere il contenuto del

sacchettino con gli amici: più rapida ed efficace come

soluzione. Ma ora che i risultati emergenti si rivelano

essere soprattutto briciole, ecco riemergere con più chia -

rezza la validità del percorso più lungo, che coin volgeva

Dio; ecco il bisogno di Lui, non tanto per le soluzioni, ma

per il modo di gestire i problemi; ecco riscoprire il bisogno

del mettere, nel fare, l’anima dell’essere.

Ecco riemergere, da dove lo si era celato, il bisogno

dell’esperienza di Dio per rendere profondamente valida

ogni altra realtà.

L’uomo di oggi è ancora lontano da Lui; ma già l’avvertire

il problema è la via che, percorsa, lo avvicina a Lui.

Il poco dell’uomo ci permette di continuare a vive re, di

sussistere ancora, di sopravvivere; il sacchet tino con dentro

il necessario ci permette certamente di non morire; ci

siamo dimenticati però che più di questo l’importante è

vivere, gustare la vita; il Dio moltiplicatore del nostro

poco ce lo richiama.

Quanta gente che incontriamo, che si accontenta di

poco, e si chiude in questa pochezza, mentre Dio sta

offrendo il tutto, la pienezza!

E solo dopo, quando i pesci puzzano, perché è da tanto

che sono chiusi lì dentro, quando il pane è troppo duro

anche per poter essere mangiato ed è divenuto una muffa,

ecco che allora si cerca, là dove mai fino ad allora si era

cercato. Dio moltiplica, per noi stessi e per gli altri, il poco

che gli offriamo. Dal “poco di buono”, al “tutto della grazia”:

ecco che cosa Dio ci sta chiedendo.

Scopriamo, adesso, la sana pazzia di quei folli che tutto

hanno lasciato di sé, tutto quel loro poco, per lasciarsi

afferrare dall’abbondanza della grazia; scopriamo l’essere

capaci di fare poca cosa, in confronto alla realtà più

importante: essere capaci di offrire.

Facendo, si rischia di fare soltanto; offrendo, si è certi

che Lui fa, e si diventa capaci di ricevere e di donare.

L’anima... Sì, proprio quella manca: rivitalizzare le

cose, le persone, gli avvenimenti e, prima di ogni altra

cosa, noi stessi, la nostra anima, che ha perso la vita della

fede, Dio stesso.

L’Anima Maiuscola, non quella minuscola, riferita

all’uomo e alle proprie realtà; quella Originaria, che trasmette

tutto. Si tratta allora di recuperare la fede, non per

viver la di più, ma meglio; salire i gradini, non restare

seduti e sdraiati al primo. Il tutto di Dio viene dato attraverso

coloro che non hanno più nulla; non a coloro che

tutto gettano via, intendiamoci, no; a coloro che sanno di

poter contare su tutto senza attaccarsi a niente, mai... nemmeno

al proprio niente. Il poco dell’uomo, anche se sfruttato

fino in fondo, conduce inevitabilmente al nulla, quello

negativo: vuotezza di significati, perdita del senso profondo,

del gusto; diventa il nulla che impoverisce sempre

più, che rende sempre meno, che ti priva, a poco a poco,

anche di te stesso e della tua identità.

Il poco gettato nelle mani di Dio, offerto a Lui, al

momento pare divenuto nulla, ma questo nulla ti permette

di aprire te stesso a tutto, a ciò che Dio stesso ti dona come

cibo: Se stesso; è il nulla della disponibilità, del non essere

attaccato mai a nulla, nemmeno al nulla.

Ridonando a te, questo atteggiamento di disponi bilità a

tutto ti permette che tutto passi, attraverso di te, verso gli

altri, senza mai fermarsi alla tua persona, che rimane sempre

libera da ogni tutto, da ogni poco e da ogni niente,

disponibili sempre più alla grazia di Dio.

E a volte, questa grazia sarà tutto, altre volte sarà poco,

altre sarà il niente; ma, l’importante, è restare sempre nella

disponibilità a lasciare ogni situazio ne, per mostrare che

solo una Situazione esiste: Dio. Ed eccoci qui, in un

monastero di clausura, in uno dei luoghi dove le pazzie di

Dio giocano “brutti scherzi”; uno di questi luoghi spesso

dimenticati dagli uomini per il loro vero significato, ricordati

e ammirati solo per le opere artistiche che dietro quelle

mura spesso vi si possono trovare, al massi mo un po’

invidiati perché lì quella gente vive indi sturbata e lontana

dalle noie e seccature dei pro blemi quotidiani, immersa in

luoghi spesso a con tatto con la natura, della quale tutti

oggi sentiamo il bisogno; spesso ci si lamenta di questi

pazzi: che ci fanno lì a pregare, con tutto il da fare che c’è?

Perché non escono un po’ ad aiutare i loro amici in difficoltà?

Possibile che non vedano tutti questi bisogni urgenti

che li chiamano in causa? E che ci stanno a fare lì rintanati?

Non si accorgono che stanno sprecando non solo

l’occasione di aiutare gli altri, ma la loro stessa vita?

Queste domande, tanto frequenti, non trovano spes so

risposte profonde e si perdono in un “Mah!” di compassione

e commiserazione, poi si torna alla vita di sempre; e

anche questi interrogativi si perdo no nella mischia delle

cose da fare, sommersi dagli altri problemi, dalle questioni

“più importanti”. E la moltiplicazione continua, attraverso

di loro, attraverso quei folli che, pensando di tenersi

il cestino del necessario per sopravvivere, un giorno se

lo sono sentiti richiedere da Dio, e non gli hanno detto di

no; ed anche oggi, offrono, pongono di fronte a Dio il

poco, il tanto, il nulla, tutto ciò che hanno, perché Egli lo

moltiplichi per loro e per tutti; e gli altri? Sommano; addizionano...

Non pensano alla moltiplicazione, perché,

secondo i loro “calcoli”, quella non è un’operazione da

fare, in questo momento. Somme e sottrazioni, niente

moltiplicazioni... Cercate altri pesci, altri pani, mettiamoli

insieme, vediamo di raccoglierne il più possibile; poi li

divi deremo equamente. E che? Non ti pare giusto? Offrire

perché sia moltiplicato? Pazzia, follia! Primo, non vedi

più niente tra le mani, e ciò è già una perdita!

Non vai più sul sicuro, rischi soltanto! E poi, chi ti

garantisce che la moltiplicazione avverrà?

Fiducia? Già... e in chi? In Dio? Ma guarda che Dio ti

chiede di fare, di fare! Sarà Lui a fare, dici? Dopo? Non

c’è tempo preciso? Ma guarda che occorre sbrigarsi, c’è

urgenza! Non si può più aspettare! La gente muore di

fame!!! E così, la gente che muore di fame oggi non solo

trova poco sollievo in questa situazione, perché giungono

solo palliativi e scarsi sostegni per debel lare il flagello

della mancanza di cibo; ma anche chi non muore di fame,

oggi muore: sta morendo di fede.

Non crediamo più che è Dio il pane, il vero cibo dell’umanità;

non ci teniamo più a che il nostro cibo quotidiano

sia da Lui santificato; non glielo offriamo più... “Roba

nostra”, diciamo.

Il buco nell'acqua...santa

Se getti un sassolino, equilibrandolo bene prima sul

palmo della mano, e mirando la direzione giusta, dove

cioè l’acqua è più calma e più profonda, ecco allora che

accade qualcosa di eccezionale: si for mano dei cerchi concentrici

via via sempre più lar ghi, che disegnandosi sulla

superficie dell’acqua, sembra si dilatino fino all’infinito. E

il sassolino...? Scomparso, facendo come un buco nell’acqua.

Così è della comunicazione vera, vitale ed efficace:

quella della fede.

Occorre un sassolino: un piccolo spunto, un’idea.

Equilibrarla, per dirigerla nella direzione migliore, nell’ambiente

calmo e in attesa di accoglierla fino in fondo.

E poi, gettarla.

L’idea si perde e scompare, ma generando all’infi nito e

riproducendo sempre più ampiamente quel piccolo spunto

che sembrava essersi perso nel buco dell’acqua.

...Già... Ma era acqua santa.

La paura del silenzio

“Il silenzio
non è il non essere legati ai suoni,
ma il non essere legati al proprio io”.

“Tuuu... Tuuu... Tuuu...”. Nessuno che risponde!

Il telefono: uno dei tanti modi per non restare nel silenzio,

per superare in fretta l’atmosfera della solitudine che

ti prende, dopo un po’ che stai da solo; allora, il clima ti fa

essere a disagio, e parti subito, alla ricerca di qualcuno, di

qualcosa, di qualsiasi realtà, purché il silenzio finisca.

Perché tanta paura?

Cosa ci sta a fondo di questo rifiuto del silenzio?

Fermiamoci un attimo, entriamo un poco in questa realtà,

a vedere cosa ci sta di tanto pauroso. E già, al primo istante,

emerge la prima delle paure: fermarsi! La paura che,

fermandomi adesso ad esaminare il silenzio, divenga un

tagliato fuori dalla realtà; fer mandomi, c’è il rischio di

perdere la vita, quella che corre, e che se ti fermi, ti lascia

lì. Fermarsi è perdere tutto, per l’uomo d’oggi: chi si

ferma è veramente perduto. Nonostante ciò, continuiamo,

sì... Perché siamo in più a farlo, e ciò ci fa sentire non isolati,

insieme; e insieme, fermarsi è possibile, vale la pena.

Superato il primo attimo di paura, ora il silenzio si avvicina,

si rende presente in noi, come mistero, come realtà

impenetrabile e troppo grande; ecco risorgere la paura, di

fronte a qualcosa più grande di te, che ti può minacciare e

togliere, che ti possa fare anche del male. Ma ora, questo

mistero si rende sempre più vicino ed impossibile da tenere

lontano da noi stessi; è un mistero che non solo si avvicina

a noi, ma che si fa noi, diventa me stesso. Ed ecco che

allora appare il motivo più profondo della primitiva paura:

ho paura di me stesso, ho paura di lasciare che dentro di

me io sia grande, che traspaia in me la grandezza. E perché

questo?

Perché tutto è piccolo, tutto si nasconde; tutto quanto,

attorno, è costruito a misura di parole e di motivi, di evidenze

e di certezze; perché mai allora lasciare che emerga

qualcosa di grande?

E chi adesso ci crede ancora, in questa grandezza? Beh,

veramente, adesso ci stiamo credendo, adesso che la sentiamo

presente in noi; ma, che ce ne fac ciamo? Subito

emerge la logica del mondo, che ci invita a lasciar perdere

tutto quanto e ritornare a ciò di cui stavamo parlando:

di come trascorrere la domenica pomeriggio, di dove

andare la sera, quale film vedere... Eppure, questo stare

insieme alla ricerca delle profondità del silenzio... Sì, ci fa

ancora un poco paura, ma accanto alla paura, anzi proprio

in essa, si cela un desiderio di esso, una trepidazione per

poter gustare ciò che il silenzio cela dietro di sé.

Avevamo paura di questo silenzio fuori di noi, ma ora

che questa realtà si sta facendo noi, è parte sempre più di

noi stessi, ora ci rende desiderabile il cercarla e il gustarla,

perché noi desideriamo esse re noi, noi stessi, autenticamente

noi. Esplorare questo silenzio ora diventa sempre

meno paura e sempre più avventura, che dentro di sé ti

propone una realtà grande: essere te stesso, ciò che cerchi

da sempre.

Avevamo paura di questo silenzio perché esso nascondeva

dentro di sé qualcosa di grande, di più grande di noi:

il mistero. Ora che il mistero si è fatto noi, ognuno di noi,

noi insieme, ora è possibile esplorare e cercare di gusta re

questa nuova realtà. E per avvicinarci ad esso, al mistero

che cerchiamo, per toccarlo anche solo per un attimo, sentiamo

che occorre lasciare ogni altra cosa, alla quale

abbiamo legato la nostra vita di ogni giorno; fare silenzio

e slegarsi, a poco a poco, da tutto quanto ci circonda. E

così, ecco che tutto passa di nuovo davanti a noi, tutto ciò

che lega la nostra vita; ora, però, ogni realtà passa e va via,

non resta a condizionare, né in bene né in male, la nostra

persona. Ora il silenzio si fa via via più concreto e palpabi -

le: attorno a noi le cose non hanno più valore se non in

quanto passeggere del silenzio stesso. Questo silenzio ci

rende più sereni, più viventi che mai. Ora siamo soli, con

noi stessi di fronte. Il silenzio adesso ci chiede ancora una

cosa: slegar ci da noi stessi, per entrare meglio nella sua

realtà profonda. È la cosa più difficile da fare: silenzio eliminando

le cose attorno, era comprensibile; ma ora, dover

addirittura eliminare l’attaccamento a noi stessi, questo è

un passo molto rischioso. Ed ecco emergere la paura, di

nuovo: paura del rischio, di non trovare più nulla, di perdere

tutto quanto siamo; la paura di noi stessi c’è ancora:

paura del nostro io, che sia qualcosa di diverso da ciò che

fino ad oggi abbiamo immaginato e consi derato... e che

siamo ora. Lasciare noi stessi! La cosa più difficile da fare,

specie senza un moti vo chiaro.

Eppure, continuiamo, insieme, su questa strada: avanti

ancora, così, nel rischio, vedendo il nostro io, a poco a

poco, a stento e con molta difficoltà, scostarsi da se stesso,

come una montagna da spo stare, per lasciare il posto a

una realtà più misteriosa che mai: Dio. Era lui il motivo

profondo delle nostre paure? Sì; non lo volevamo dire,

non lo ricordavamo forse, lo avevamo dimenticato, ma

proprio Lui era la Paura del nostro io, colui che minacciava

la nostra onnipotenza... Proprio come all’origine, là nel

Paradiso, dove la sua onnipotenza fu considerata dall’uomo

in concorrenza con il progetto umano della vita.

Perché, Dio, questo Silenzio misterioso ed infinito ci fa

paura? Perché temiamo che rovini il nostro io, che ci

cambi le carte in tavola, che venga a dirci qualco sa di

diverso da ciò che noi diciamo. Dio, era Lui la Paura delle

nostre paure.

Finora, le nostre parole lo avevano tenuto lontano;

oggi, il nostro silenzio ci ha avvicinati a Lui, il Silenzio. E

ora che non siamo più soli nemmeno con noi stes si, perché

il nostro io passa davanti a noi, ma non si attacca a noi,

a quel mistero che siamo, eccoci non più ad ascoltare il

silenzio, ma ad esserlo: siamo il silenzio, quello vero, fatto

non dalla mancanza dei suoni attorno, ma dalla presenza

del Silenzio di Dio. Dio tace, e il suo Silenzio si fa amore.

Ma... la sua Parola, la parola di Dio? Per condurci alle profondità

del Silenzio, all’Amore. Ma... Gesù? Non parlava

di Dio?... Non usava le parole? No, Lui è la Parola, e in

Lui si manifesta e si nasconde il Silenzio di Dio. Si manifesta

o si nasconde?!... Si manifesta e si nasconde il mistero

dell’Amore. Il Silenzio parla, ma nello stesso tempo

parla del Silenzio. Che senso ha ora rivivere tutte le cose?

Vengono tutte quante rivestite del silenzio, vengo no recuperate

nel loro essere più profondo, in se stesse, non per

noi o in funzione di qualcosa. Il Silenzio ora ci permette di

amare tutto quanto, di contemplare la creazione, di guardare

e vedere, mentre prima guardavamo e non vedevamo,

sentivamo parole e non ascoltavamo mai. Il Silenzio è la

rivisitazione delle cose, il rivederle così come sono e non

come noi vorremmo che fossero; e tra queste realtà da

rivedere, in primo luogo, ci siamo noi: noi stessi.

Il Silenzio è il lasciarci contemplare da Dio: Lui, sì, che

contempla noi, che si compiace della sua imma gine: e

vede che ciò è cosa buona.

Gli occhi di Dio che ci guardano compiaciuti non li

vediamo, perché sono i nostri stessi occhi: come potremmo

vederli? Specchiarci? Sì, nello specchio del creato, e

prima di tutto, nello specchio della creatura: in noi stessi,

per primi. I nostri sono gli occhi di Dio. Un tempo lontano,

si usava dire: Dio ti vede; già: da dentro.

Adesso che il Silenzio è con noi, in giro per il mondo

non è più come prima; ti accorgi, ora, se le cose e le persone

parlano veramente, o se sono senza la parola più

importante: il Silenzio. Parlare per parlare... Spesso è così.

Parole per avere, per comprare, per dare per... Ma soltanto

la parola che nasce dal Silenzio, solo quella produce la

vita, solo quella ti fa gustare e desiderare in te il tuo essere,

solo quella ti realizza.

II massimo sarebbe riuscire a comunicare col Silenzio;

non con le parole, ma con la Parola: Dio.

Adesso che siamo il Silenzio, tutto comincia a par lare

attorno a noi; tutto entra in questo silenzio che

purifica e distingue, donandoci la gioia.

Senza il Silenzio che è Dio, tutto sarebbe rimasto muto.

Senza il nostro essere Silenzio, non l’avremmo mai

ascoltato. Quando Dio non parla, noi gli attribuiamo la

colpa di non ascoltarci; quando Dio tace, invece, è perché

sta parlando; ma le nostre imprecazioni ci impediscono di

metterci in ascolto del suo essere Silenzio.

Vorremmo, come al solito, esortare Dio, perché si metta

a seguire i nostri consigli: parla, di’ qualcosa! Perché

taci?! Perché non parli? Perché mi hai abbandonato?!

Risolvi questo, risolvi quello! Non startene lassù a far

nulla! Ma Dio tace... Ascolta e tace.

“Tuuuu... Tuuuu... Tuuuu...”: Dio non risponde al telefono,

no... mai; preferisce venire di persona. Solo che noi,

abituati a parlare attraverso i telefo ni, non ce lo attendiamo

più all’uscio di casa. Dire il silenzio di Dio all’uomo

di oggi... Quel silenzio di Dio, che parla attraverso le realtà

che per il mondo tacciono: la stoltezza della predi -

cazione, gli ultimi e i poveri, le cose dello spirito, i dubbi

e le difficoltà, le malattie, il silenzio della solitudine e

della morte... NO! Non può essere...! Che un Dio non

approfitti del suo potere di comu nicare e scelga queste

insulse vie! Eppure, Lui ci conduce qui, non altrove. Dio

ha scelto ciò che il mondo fa tacere, come luogo per parlare

agli uomini. Ma perché non ha scelto i luoghi del

mondo? Non era più facile e comodo? Non avrebbe ottenuto

più facilmente dei risultati? Dio ha scelto quelli, perché

sono essi i luoghi più ricchi di capacità d’ascoltare;

attraverso di essi, poi, giungerà ai luoghi del mondo, quelli

che in effetti sono i più poveri nell’ascolto; vi giungerà,

attra verso la stoltezza, il nulla, le pochezze, per donare

anche lì la ricchezza del suo amore. Ma, Signore... Chi li

ascolterà? Rimarranno sem pre, come ora, inascoltati e

disprezzati!

No. Questo mondo immerso nel piacere delle realtà

forti, a poco a poco è destinato a cadere sotto i colpi di ciò

che produce; sempre più, agli occhi degli uomini, apparirà

l’inconsistenza della mentalità del mondo senza altro

all’infuori di sé. Allora, l’uo mo inizierà a cercare sempre

più quelle realtà che gli emergono dal cuore, che sembravano

sotterra te: la gioia, il senso della vita... E le troverà,

veden dole in quei luoghi che egli aveva dimenticati: i luoghi

dove poter ritrovare non solo le cose di sé, ma soprattutto

se stesso. Lì ritroverà la via del silenzio, e la riconoscerà

per ché non fatta di parole, ma dall’esempio di chi,

povero di fronte al mondo, è ricco di grazia da donare.

Dio, perché questa logica illogica? Non era meglio fregarli

tutti con la tua onnipotenza? No, più efficace la debolezza;

l’onnipotenza annienterebbe, la debolezza certamente

costruisce. E così, quel silenzio del quale avevamo paura,

ci sta ricreando e ci fa riscoprire il nostro essere in Lui.

Non solo essere in silenzio, ma soprattutto essere il

Silenzio.

Ma, Signore, perché?

Perché ti lasci accusare come Colui che castiga, mentre

non dici che sei il difensore?

Perché non spieghi, e ci lasci nel dubbio?

Perché non ci convinci delle tue ragioni?

Perché...?

Quante domande! Quando ti metterai in ascolto delle

risposte?

Le hai tutte dentro di te, le soluzioni; proprio tu puoi

rispondere alle tue stesse domande.

Ascolta... Ascolta, Israele.

Sì, Signore, ti sento come mia risposta, nel mio respiro,

in ciò che di più vicino a me c’è in me: io.

Ed ora non ho più paura, solo nostalgia di non essermi

lasciato da Te amare.

Tu che, Silenzio in ascolto, accrescevi il tuo Amore nel

profondo delle mie ossa.

Ora la paura s’è resa timore; ora il tremare, trepidazione.

Ora che sento l’incapacità e l’inadeguatezza delle mie

risposte d’amore a Te, non posso fare altro che lasciarmi

cadere nel silenzio delle tue braccia, certo di essere da Te

riposto sulla strada della vita ed accompagnato dal tuo sorriso

sempre presente, o Dio, Madre silenziosa sul nostro

cammino.

Rendici, Signore, testimoni del silenzio, non permetterci

più di parlare di Te, se non sei Tu stesso che parli.

Fa’ che ci ascoltiamo, Signore, in ciò che sei dentro di

noi, allontanaci da quel nostro io che ti si impo ne a parole,

ascoltaci Tu, Signore, là dove noi non Ti sappiamo

ancora ascoltare. “Tuuuu... Tuuuu... Tuuuu...”.

Se mi dicessero di rispondere, che a chiamarmi al

telefono è Dio, non lo farei, mai.

Tra noi c’è una sola parola: il Silenzio.